GEORG VOIGT

 

IL RISORGIMENTO DELL'ANTICHITA' CLASSICA

OVVERO

IL PRIMO SECOLO DELL'UMANISMO

 

Capitolo V

 

    Confronto tra i letterati della Curia e il gruppo fiorentino. Traduzioni. Traduzioni dal latino in lingua volgare. Traduzioni dal greco in latino. Firenze come madre di questo genere di letteratura. Traduzioni di opere platoniche ed aristoteliche di Leonardo Bruni. Giudizi su esse. Sussidi e tendenze delle traduzioni d'allora. Rifacimenti di Senofonte, di Polibio e di Procopio per opera del Bruni. Roberto de' Rossi e Giacomo da Scarperia come traduttori. Versioni di autori ecclesiastici del Traversari. Il Poggio e Lapo da Castiglionchio come traduttori. Altre traduzioni prima di Niccolò V. Uberto Decembrio. Agapito Cenci. Pier Paolo Vergerio e il suo Arriano Traduzioni di Guarino e de' suoi discepoli. Ognibene da Lonigo, l'Aurispa, il Filelfo come traduttori.    Scopi di Niccolò V e distribuzione del lavoro. Opere di Aristotele tradotte dal Trapezunzio, dal Gaza e da Gregorio di Città di Castello. Altre traduzioni di Aristotele. Platone lasciato in disparte dal papa. Scrittori greci. Tucidide ed Erodoto tradotti dal Valla. Diodoro tradotto dal Poggio e dal Decembrio. Strabone tradotto dal Guarino e da Gregorio. Teofrasto tradotto dal Gaza. L'Almagesto tradotto dal Trapezunzio. Opere minori. Omero tradotto in latino ultimo desiderio del papa. Trascrizione di Pilato. Impulsi del Salutato. Tentativi in prosa di Leonardo Bruni, del Decembrio, del Valla. Recensione di Pindaro tebano. Rifiuto del Basini. La batrocomiomachia tradotta dal Marsuppini. Suo tentativo di tradurre l'Iliade. Tentativi di Orazio. Trattative col Filelfo. Traduzioni di Francesco d'Arezzo, di Niccolò della Valle, di Giano Pannonio, di Angelo Poliziano. Traduzioni di autori ecclesiastici.    Niccolò V come bibliofilo. Sue spedizioni letterarie. Enoche da Ascoli spedito nelle regioni del nord. Sue scoperte Acquisto di libri greci. Giovanni Scutariota. Biblioteca papale. Fondazione della Vaticana. L'università di Roma e Niccolò V. Maestri umanisti: il Rinucci, il Trapezunzio, Pier Oddone da Montopoli, Enoche, il Gaza. Il Valla come insegnante.

 

    Così andavano le cose a Roma presso il papa, che pel primo con la benevolenza, col personale interessamento e con la liberalità raccolse un numero considerevole di letterati nella sua Curia. E qui cade nuovamente in acconcio un confronto col gruppo dei letterati fiorentini, che al principio del secolo era alla testa del moto umanistico. In esso vedemmo persone di tempra così originale, che, anche prescindendo dai loro meriti come antiquari e come scrittori, potevano considerarsi come i precursori di un tempo nuovo e di una nuova cultura. A Roma s'arrolavano individui man mano che capitavano. Gli amici e i protetti della casa medicea avevano una tendenza comune, un solo indirizzo li teneva uniti, per quanto anche vi fossero divergenze fra gli individui; essi formavano, senza dichiararlo, una grande associazione in nome della scienza. Fra quelli invece che si disputavano il favore del papa, ognuno pensa soltanto a sé e al proprio vantaggio, e una sordida invidia, figlia dell'avidità, è la causa delle loro discordie. Si adula la persona di un mortale non indegno, ma di sensi poco elevati; da lui ognuno riceve il lavoro e la ricompensa. Non v'è comunità d'idee, fuorché una il servizio di corte. Il favore del papa liberale è il solo movente di ogni rivalità. Ciò che alletta i suoi traduttori non è la gloria, ma il danaro, non l'onor della penna, ma la pallida invidia. È poi singolare questo fatto che il papa stesso, o non lascia trascrivere affatto le opere a lui dedicate e da lui pagate, o vi acconsente di mala voglia; non vuol dividere con nessuno gli averi e la gloria.

    Proporzionato al movente è il risultato. Quanta vitalità d'impulso nel gruppo fiorentino! Esso è conscio della sua missione di risuscitare e di trarre per sempre dall'oblio il passato: esso indaga e raccoglie con giovanile ardore; le scoperte fatte sono stimolo a nuove ricerche; esso manda esploratori in regioni lontano e concentra poi nella sua Firenze gli sparsi tesori dell'antichità. Questa sta dinanzi come una massa opaca con un filo di luce misteriosa. Esplorarla, illustrarla, scoprirne l'intima essenza, ecco la meta, ecco la vita che palpita nelle corrispondenze epistolari di quelli che quel gruppo compongono.

    La Roma letteraria di Niccolò V non è che una artificiale e pallida imitazione della vita letteraria di Firenze, ma non una c reazione originale; essa non ha più la missione di richiamare in vita, ma di elaborare e conservare ciò che si è risuscitato. Pel momento poteva illudere la moltitudine di  dotti, che il breve pontificato di Niccolò attirò a Roma, e il numero stragrande dei loro lavori. Ma chi aveva occhi per vedere e mente per giudicare, andava più cauto nel suo giudizio. Già ancora a' suoi tempi il Valla, pur lodando il papa, ne riepilogò gli intenti in queste parole: tu hai chiamato tutti noi, padroni delle due lingue, per sottometterti, quant'era da noi, tutta la Grecia; ciò non altro vuol dire la traduzione dei libri greci in latino. E nello stesso ordine di idee Pio II, pochi anni dopo che la Curia letteraria del suo predecessore si era sciolta, scriveva: «Niccolò favorì e protesse i begli ingegni a tal segno, che difficilmente si troverebbe un'epoca, nella quale gli studi di umanità, di eloquenza e delle altre belle arti abbiano fiorito più che sotto di lui. Questo è certo per lo meno, che a lui dagli uomini più dotti furono dedicati tanti libri, quanti non ebbe nessuno de' suoi predecessori, né verun imperatore». E dopo un mezzo secolo, quando quella generazione s'era tutta spenta e quando s'era dileguato in fumo tutto l'incenso tributato a quel papa, ecco che un critico acuto scrive di questo periodo di Niccolò V: «Molti sotto di lui fecero traduzioni, alleati dalla prospettiva di un lauto guadagno».

    E così fu infatti. In sostanza la celebre corte letteraria di Niccolò V non era che un gran laboratorio di traduzioni. Ma non per questo se ne deve far poco conto. La cognizione della lingua greca n'ebbe grande incremento, e lo studio dell'antichità ne risentì vantaggio, allargandosi e diffondendosi ogni dì più.

    Il movente da cui parte la traduzione e il merito che sta in essa, sono due cose di natura diversa. Essa mira innanzi tutto a venire in ajuto all'ignoranza delle lingue, presupponendo un lettore, che senta il bisogno di conoscere le produzioni letterarie di un altro popolo o di un altro tempo. Solo in seconda linea e dietro il presentimento di una certa affinità può sorgere il pensiero, che l'indole di una lingua tenda ad avvicinarsi a quella di un'altra, a rispecchiarsi e quasi ad immedesimarsi in essa. In questo caso si tratterà naturalmente di traduzioni nella lingua volgare, destinate a persone colte del ceto laico o a principi ed alti personaggi, nei quali lo scrittore desidera di far nascere l'amore alle scienze e alle lettere. Allora la traduzione dal greco in latino, cioè da una lingua morta in un'altra pur morta, non ha ragione d'essere se non esistano lettori dotti che, possedendo perfettamente il latino, abbiano pure la coscienza che la letteratura latina ebbe una volta il suo fondamento nella letteratura greca e che quindi non si può intenderla appieno, se non si conosca anche questa.

    Tale è pure la via che tenne la cultura umanistica in Italia. Anch'essa cominciò con traduzioni in volgare, le quali oggidì per la massima parte non sogliono citarsi se non in quanto riguardino autori, che appartengono ai promotori dell'Umanismo od in quanto i traduttori stessi sieno umanisti. La sorprendente esiguità del numero si spiega da questo, che in Italia l'uomo colto in generale passò per tutte le scuole di latino; e perfino nelle corti principesche il latino era familiare ogni dì più. Brunetto Latini fu il primo, per quanto si sa, a darne l'esempio; egli tradusse le Orazioni di Cicerone per Marcello, Dejotaro e Ligario, una parte della Rettorica ad Erennio e parecchie altre cose. Ma a chi fossero destinati questi lavori non si sa; certo però a taluni mercatanti fiorentini. Di Livio pure si vuole che esistessero antiche traduzioni. Secco Polentone afferma, che il Boccaccio abbia tradotto le tre decadi allora conosciute; si ritiene probabile, che almeno la traduzione della quarta, che fu dedicata ad Ostasio da Polenta signore di Ravenna, sia opera sua. Del rifacimento italiano del commento, che Gregorio Magno scrisse sul libro di Giobbe, attribuito a Zanobi da Strada, qui si fa menzione pel nome dell'autore; se il libro fu ristampato più volte, lo deve soltanto alla lodata purezza del linguaggio. Anche alcune opere del Petrarca furono a più riprese tradotte. Ed egli stesso si degnò una volta di dar veste latina ad una novella del Boccaccio; non volle però mai profanare nessun classico col voltarlo in lingua volgare. Ben presto questa non parve degna di venire a contatto coll'erudizione. Tutt'al più un umanista di secondo ordine, come Pier Candido Decembrio, cercò di raccomandarsi al suo mecenate, il duca Filippo di Milano, col dedicargli tradotte in volgare le Storie di Curzio e la Vita di Giulio Cesare di Svetonio. L'orgoglioso Filelfo credé così degradante e stupido l'incarico datogli dal duca stesso di commentargli il Canzoniere del Petrarca, che, pure obbedendo, non tralasciò di manifestargliene il suo disgusto.

 

CONTINUA

 

 

Georg Voigt, Il risorgimento dell'antichità classica ovvero il primo secolo dell'umanismo, Firenze 1890, vol. II,  trad. di D. Valbusa, vol. II, pp. 152-155