L'ICONA SACRAMENTO DEL REGNO

All'inizio della mia comunicazione vorrei cominciare con le parole del Prologo della prima lettera di san Giovanni: "... Ciò che noi abbiamo sentito, ciò che abbiamo visto coi nostri occhi, ciò che le nostre mani - e le nostre labbra - hanno toccato riguardo la parola della vita... noi ve lo annunciamo". (1, 1-3).

Così ci sono aspetti del mistero del Cristo che noi non possiamo ridurre in formule apodittiche, ma che noi non possiamo che proporre, il mistero della Gloria, della Bellezza, della Luce di Dio. Non si impone dal di fuori, ma si propone o si impone per la sua evidenza interiore. Vi è bisogno di molta discrezione e di consonanza con l'oggetto del discorso per parlare dell'icona sacramento della Bellezza e della Gloria di Dio che si rivela e si comunica.

La formulazione stessa del titolo del mio intervento, improntata al libro di P. Alessandro Schmemann L'Eucharistie, Sacrement du Royaume (Parigi 1986), che è un po' il suo testamento spirituale, vuole suggerire una visione dinamica dell'icona come sacramento o meglio come caso della sacramentalità generale della Chiesa. La coscienza ortodossa non si è mai sentita a suo agio nella teoria scolastica del settenario sacramentale insegnata nei manuali. La nostra teologia contemporanea (P. Sergio Bulgakov, P. Nicola Afanassiev, P. Alessandro Schmemann e i loro continuatori) non esitano ad attribuire un carattere sacramentale a forme e gesti liturgici, alla Parola di Dio divenuta parola umana (Scrittura, predicazione, culto, teologia). L'arte liturgica, inseparabile dalla Parola e dal culto ecclesiale, possiede dunque uno statuto sacramentale di cui vorrei indicare alcune componenti.

Parlare dell'icona come sacramento non è possibile se non si abbandona la concezione parziale, codificante dei sacramenti e non si ricorre al mistero della Chiesa, sacramento unico e sufficiente della salvezza comunicata dall'Amore trinitario nell'opera redentrice del Verbo incarnato e dello Spirito Santo.

Bisogna dunque apportare qualche sfumatura alla applicazione all'icona e all'arte ecclesiale della nozione di sacramento. Se il Concilio niceno II, e poi il Trionfo dell'Ortodossia (843) hanno formulato il dogma dell'icona, ne hanno espresso il carattere sacramentale senza impiegare la parola, è certo che la coscienza ecclesiale cattolica ha visto aumentare l'arte e la venerazione delle icone e ne ha scoperto il fondamento teologico e cristologico a partire da una esperienza spirituale profonda nello stesso tempo personale e collettiva, nella quale noi vediamo l'opera, il soffio dello Spirito. Se dunque l'Ortodossia vede dopo il Concilio Niceno II la dottrina e la pietà verso le icone come un dogma, avente un carattere allo stesso tempo vincolante e universale in quanto riguarda l'uomo intero e tutto l'uomo, bisogna avere molta discrezione, umiltà e modestia quando percorriamo la storia e la geografia del cristianesimo, sia all'interno che all'esterno delle frontiere "canoniche" dell'Ortodossia. L'arte e la pietà verso le icone hanno conosciuto eccessi e abusi, fino ad arrivare al feticismo; nel senso inverso ci sono stati fenomeni di reazione o di spiritualizzazione all'eccesso in diverse correnti di spiritualità, segnate dalla tentazione del platonismo, del dualismo antropologico (Origene, Evagrio) di cui l'arte cristiana ha subito le conseguenze. Vi sono state epoche di decadenza profonda dell'arte cristiana. Tuttavia lo Spirito Santo ha sempre trovato le vie per raggiungere il cuore umano e santificarlo.

Detto questo, l'icona ci appare come un dono della pienezza sacramentale senza la quale l'Ortodossia sarebbe gravemente sminuita e appare inoltre come uno degli aspetti più creativi della nostra testimonianza, anche nella situazione di cristianità divisa e di mondo secolarizzato nella quale ci troviamo. Bisogna lasciare che l'icona parli da sé, al di là della nostre formulazioni concettuali. Bisogna anche pervenire alla grandezza della icona, a partire dalla iconografia pedagogica e illustrativa verso la contemplazione dei misteri che l'icona rappresenta.

Nella esperienza vissuta della Chiesa, esperienza primordiale e preteologica che noi cerchiamo di formulare teologicamente, l'icona è sacramento (cioè modo di presenza e di comunione) della divino-umanità di Cristo: "Poiché, scrive Giovanni Damasceno, ora Dio è stato visto nella carne e poiché ha vissuto tra gli uomini, io rappresento ciò che è visibile in Dio" (Immagini, 1, 16). Il Damasceno afferma così il fondamento cristologico e incarnazionale dell'icona. E' questo il punto di partenza della nostra teologia dell'icona.

Ma questo fondamento incarnazionale deve essere allargato fino ad abbracciare la totalità dell'opera redentrice del Salvatore. Ogni tappa dell'opera della salvezza fonda la capacità della materia, e prima di tutto dell'uomo stesso, di divenire icona del Regno unitario. In effetti, dopo che la carne di Cristo, e dunque la stessa materia, è stata trasfigurata nella luce e nella potenza della resurrezione, dopo che essa è stata elevata alla partecipazione alla vita divina nell'Ascensione, essendo il Signore ormai nella gloria della destra del Padre, ormai la creatura è divenuta in Cristo come principio della nostra salvezza e capo della Chiesa., capace di accedere alla somiglianza divina e di progredirvi. Ormai dunque il linguaggio e l'arte umana possono essere battezzate nella Chiesa e possono, nel fuoco dello Spirito, divenire capaci di tradurre ai nostri sensi umani e alla nostra intelligenza, la presenza della Trinità divina in se stessa e nei suoi santi.

Distinguerei, parlando del fondamento teologico della icona, accanto al suo aspetto "incarnazionale", quello "ascensionale". Esso concerne tutta la realtà della Chiesa. La Chiesa nel suo mistero ultimo come sacramento globale del regno, la sua vita sacramentale centrata sull'Eucaristia, tutto il suo simbolismo liturgico nel quale l'icona ha il suo posto necessario.

Il fondamento cristologico dell'icona deve essere interiorizzato, equilibrato mediante la sua dimensione pneumatologica. Noi possiamo scoprire questo dato grazie all'aiuto di san Basilio il Grande, il cui adagio è ben conosciuto: "L'onore reso all'Immagine passa al Prototipo" (Trattato sullo Spirito Santo, XVIII, 45). Certo il contesto letterario e storico di questo passaggio è la controversia trinitaria nella quale Basilio è stato impegnato. E' per una estensione di significato che questo testo è stato utilizzato nella controversia iconoclastica e che è stato consacrato mediante la definizione dogmatica del Concilio niceno II.

Bisogna però precisare che non solo si trova nel Trattato sullo Spirito Santo, ma che esso è situato anche in uno dei punti più importanti in cui Basilio definisce in modo probabilmente unico in tutta la letteratura patristica il tropos o modo particolare di azione dello Spirito Santo nella indivisa economia trinitaria della salvezza. Lo Spirito, dirà Basilio, è nello stesso tempo il luogo della adorazione trinitaria da parte della creatura e il luogo di santificazione di questa da parte della divina Trinità. E' dunque nello "spazio" dello Spirito che si contempla i. Figlio e attraverso di lui il Padre: "Quando sotto l'influenza di una potenza di illuminazione (quella dello Spirito) si fissano gli occhi sulla bellezza dell'Immagine del Dio invisibile e per mezzo di essa ci si eleva fino allo spettacolo che rapisce dell'archetipo, lo Spirito di conoscenza ne è inseparabile, dando lui stesso la forza di vedere l'Immagine a coloro che desiderano vedere la Verità" (Trattato sullo Spirito Santo, XVIII, 47). "Non si può vedere l'Immagine del Dio invisibile, dice ancora san Basilio, se non mediante l'illuminazione dello Spirito" (ibid, XXVI, 64).

Questa dimensione o condizione pneumatologica della visione del Cristo, immagine perfetta del Padre, è essenziale per la teologia dell'icona. Senza di essa, il riferimento degli iconofili all'adagio classico di san Basilio diviene piatta, la relazione dell'immagine al Prototipo diventa esteriore, illustrativa, nozionale.

Incontriamo questo riferimento allo Spirito Santo alla ripresa delle controversie iconoclastiche in una lettera che papa Pasquale I indirizza all'imperatore Leone IV l'Armeno nell'817: "Se nessuno può chiamare Gesù Signore se non nello Spirito Santo (1 Cor 12, 3), lo scrivere (che qui significa anche dipingere) è ancora più difficile del dire; nessuno può dipingere Gesù come Signore se non nello Spirito Santo. Perché tu troverai che lo stesso Besaleel era pieno di Spirito, solo per avere riprodotto i simboli celesti impressi sulla montagna (Es 31)".

Quando ci rivolgiamo al più grande difensore della venerazione delle icone, san Giovanni Damasceno, vediamo, come ha mostrato assai bene il p. Christoph von Schönborn, che egli distingue diverse categorie di immagini, la più perfetta delle quali, il Figlio stesso, immagine perfetta del Padre, poi quella dell'uomo, in quanto creato a immagine di Dio e chiamato alla somiglianza e infine le icone propriamente dette (cfr. san Giovanni Damasceno, Immagini, I, 9-13, citato da C. von Schönborn, L'Icône du Christ, fondements théologiques, Paris 1986, pp. 191-93).

Piuttosto che limitarmi a una semplice enumerazione della varietà delle immagini, in ordine decrescente di valore, vorrei sottolineare l'unità di queste diverse dimensioni: cristologica, antropologica e, perdonatemi il pleonasmo, iconografica.

Icona vera e perfetta del Padre, Gesù si comunica agli uomini nella "illuminazione" dello Spirito Santo, nell'oggi sacramentale e spirituale della Chiesa, fino alla fine dei tempi. In questo Gesù è il Tempio vero della Divinità, non fatto da mani d'uomo (cfr. Gv 2, 21; Col 2, 9; 1, 15) è a somiglianza del Figlio che noi portiamo in noi stessi questa immagine del Padre che deve manifestarsi. Come il Nome di Gesù è impresso nei nostri cuori dal battesimo ("Accorda, Signore, che il tuo santo Nome rimanga su colui che sta per essere battezzato e che egli non lo rinneghi"), così l'Immagine di Cristo è impressa nel cuore umano. Il programma della nostra vita è quello di manifestare questa icona interiore. Questa è la funzione dei nostri padri e delle nostre madri e dei pedagoghi nello Spirito Santo, di concorrere a questa opera: "Miei piccoli figli, che io soffra di nuovo i dolori della infanzia, finché Cristo sia manifestato in voi" (Gal 4, 19).

Il segreto della verità, della somiglianza della icona dipinta con il prototipo è precisamente quello della corrispondenza credente fra le icone che noi veneriamo e la icona interiore che è nel cuore di ogni essere umano. Non posso non citare qui alcune righe dei Carnets d'un peintre d'icônes, contemporaneo di p. Grégoire Krug (m. 1969): "L'immagine e la somiglianza divine, poste da Dio nell'uomo a partire dalla creazione, sono per così dire, la condizione pensata dal Creatore che premette di rivelarsi nell'immagine umana per mezzo di un elemento sensibile, accessibile alla contemplazione. Questa immagine e somiglianza di Dio, che sono state donate all'uomo nel momento stesso della sua creazione, sono già una sorta di icona archetipica, una immagine data da Dio, una sorgente inesauribile di santità. L'immagine e la somiglianza di Dio, che nella stessa caduta dell'uomo non possono andare perdute, devono rinnovarsi continuamente, rivivere, purificarsi e, per l'azione, della grazia e l'ascesi dell'uomo essere in certo modo dipinte in maniera incancellabile nelle profondità dello Spirito. Per mezzo dell'ascesi e della santificazione, l'immagine di Dio si iscrive nelle profondità dell'uomo e questo sforzo costruttivo, ininterrotto e inalienabile, è la condizione fondamentale della vita dell'uomo, una sorta di impressione incancellabile del Cristo nel profondo dell'anima... Nella sua Incarnazione il Cristo appariva come il restauratore della Immagine divina nell'uomo; Più ancora che restauratore, egli è l'esecuzione e la realizzazione totali e perfette della immagine di Dio, l'icona delle icone, la Sorgente di ogni immagine santa, l'Immagine che non è fatta da mani d'uomo, la Gerusalemme vivente (Paris 1983, pp. 35-36; testo russo: Paris 1978, pp. 15-16).

A partire da questa corrispondenza tra l'icona dipinta e l'immagine di Dio nel cuore umano, possiamo tornare alla nozione della sacramentalità dell'icona, cioè della sua capacità e della sua funzione da una parte di veicolare e trasmettere all'uomo la presenza santificante del Cristo e dei suoi santi e dall'altra di elevare verso Dio la preghiera ecclesiale e personale. L'icona ha anche un valore e una funzione sacramentali a diversi titoli e in diversi gradi. Vorrei distinguere le tre seguenti modalità della sacramentalità dell'icona: nel suo divenire, nella sua permanenza, nella sua mediazione.

1. La creazione dell'icona, il suo scaturire nel cuore dell'artista in pura e vera bellezza è un mistero, un miracolo sempre rinnovato, sempre sconvolgente. Bisogna ricordare qui l'esigenza di purezza, di ascesi, di santità che incombe all'iconografo come d'altra parte al catecheta, al teologo, al padre spirituale, che sono tutti teologi, tutti iconografi. Perché questo scaturire dell'icona, della interiorità stessa del cuore purificato, è realizzata dallo stesso Spirito Santo; è lui che ne costituisce il dinamismo, che assicura la verità; è lui infine che riproduce l'immagine interiore eterna sul pennello del pittore (o sulla lingua dell'oratore o sulla penna di colui che scrive). La pittura delle icone può a giusto titolo attribuirsi questa preghiera tratta dalla liturgia eucaristica di san Basilio: "Ricordati, Signore, della mia indegnità, secondo la grandezza della tua compassione. Perdonami ogni colpa volontaria o involontaria e, a causa dei miei peccati, non allontanare da Doni qui presenti la Grazia del tuo Santo Spirito".

Così, durante e al termine della creazione della icona, Lui, il Signore, deve crescere e il pittore diminuire. Deve, al termine del suo lavoro crocifiggente, prostrarsi e umiliarsi davanti a colui che lo supera e lo interpella.

2. L'icona acquista così una esistenza sacramentale autonoma, "obiettiva". permanente, vera per ogni uomo in ogni tempo e in ogni luogo. Non soltanto essa rifletta la gloria del regno trinitario di cui tutti siamo chiamati a essere eredi, ma essa ne contiene l'energia vivificante. Essa è, dice ancora san Giovanni Damasceno, "riempita di energia divina e di grazia" (Immagini, I, 16), direi riempita di Spirito Santo. Essa non è solo oggetto e spazio di contemplazione e dunque di preghiera, ma anche luogo e canale di santificazione dell'uomo, dato che la grazia e le energie divine sono inseparabili.

Questa funzione "energetica" o santificante (quindi pneumatologica) della icona è una delle caratteristiche fondamentali della venerazione delle icone nella Ortodossia, forse il solo aspetto della pietà ortodossa dell'icona che la teologia cattolica romana ha ancora qualche difficoltà ad accettare. E' così che nella prima edizione della sua opera magistrale sul fondamento cristologico dell'icona, il p. C. von Schönborn vede nella iconologia del Damasceno "l'aspetto del culto dell'icona più difficilmente accessibile per il cristiano occidentale: l'insistenza cioè sull'aspetto teoforico, portatore di grazia dell'icona, a detrimento della venerazione della persona rappresentata" (op. cit., p. 196). Nella terza edizione della stessa opera, il p. von Schönborn attenua un poco la severità del suo giudizio sul Damasceno (Paris 1986, pp. 250-51).

Così nella conoscenza teologica e nella pietà dell'Ortodossia, ogni icona è ontologicamente "miracolosa", carica della energia vivificante dello Spirito del Cristo. Anche qui la dottrina corrente della Chiesa sulla santità "obiettiva" dei sacramenti (ex opere operato) e sulla trasparenza alla grazia di Dio dei ministri dei sacramenti (ex opere operantis) si applica interamente all'icona, luogo della presenza divina e strumento della grazia. Se ogni icona è "miracolosa" per la sua natura sacramentale, in certe icone la presenza di Dio si manifesta in modo più tangibile, la preghiera della Chiesa vi si può accumulare e "capitolizzarsi" con maggiore intensità. La grazia di Dio non disdegna di fissarsi a manifestarsi nel prodotto più bello dell'arte e della preghiera umane.

3. Un terzo grado della sacramentalità dell'icona, quello per la quale essa è creata, è la sua funzione "mediatrice" nella preghiera più personale. L'uomo è lui stesso per natura e per vocazione un essere sacramentale, una creatura "iconica", "un animale, come diceva san Basilio, che ha ricevuto l'ordine di diventare Dio". Ha dunque bisogno del mezzo dei sacramenti e dei simboli per giungere alla visione e alla comunione con l'Invisibile e l'Indescrivibile. Per la intermediazione dell'icona di instaura una vera relazione personale tra il credente e il mistero o i personaggi rappresentati. L'Ortodossia non dimentica mai il ruolo "diaconale" dell'icona (e dei sacramenti), che devono servire all'avvenimento del regno trinitario in questo mondo attraverso la santificazione del cuore umano.

Qualche parola per terminare su quello che chiamerei "l'al di là" dell'icona. Anche qui la natura del sacramento implica che l'"onore reso all'immagine passi al Prototipo". Nel faccia a faccia del Regno di cui l'icona è quaggiù una delle manifestazioni sacramentali, una epifania, l'uomo sarà nella sua totalità trasparente e fedele, tendendo con infinito slancio di amore ad andare dalla immagine nascosta alla somiglianza gloriosa dell'Archetipo divino, comunicando direttamente con la Parola vivente e con l'immagine vivificante del Padre che è il Cristo. Così il sacramento del Regno che è l'icona ci pone alla sequela del Figlio Unico, come figli unici per la grazia della adozione nello Spirito Santo, chiamati a penetrare nel mistero del Padre, al di là di ogni immagine e di ogni linguaggio, nel mormorare indicibile del Nome di Gesù e del Nome di Abba-Padre, nella contemplazione felice del Volto del Risorto. Allora nel mormorio dello Spirito spunteranno dal nostro seno fiotti inestinguibili di lode e di rendimento di grazie.

 

DA SIMPOSIO CRISTIANO
edizione dell'Istituto di Studi Teologici Ortodossi
San Gregorio Palamas
Milano 1994, pp. 89-95                                                                                                                                                                    Trad. di Pietro Galignani